COMUNITÀ CORAGGIOSA E CURA: IL CUORE DELL’IMPEGNO SOCIALE
Scritto da FrammaRadioWeb il Gennaio 14, 2025
In questa intervista con Alessandra clementini, assessore alle Pari Opportunità e ai Servizi
Sociali, emerge un racconto di impegno, sensibilità e speranza che invita tutti a sentirsi
parte di un progetto comune.
- Quali sono le principali iniziative intraprese dal Comune di Monterotondo per
contrastare le discriminazioni e promuovere l’inclusione, con particolare
attenzione alle persone immigrate provenienti da Paesi in guerra?
Allora, guarda, proprio questa mattina ho ricevuto un invito a un pranzo organizzato
dall’ARCI, che porta avanti progetti SAI da tantissimo tempo.
Ad ogni modo, la Casa della Pace è un po’ il fulcro di questa progettualità, di questa
missione che ci siamo dati anche come comunità. È una comunità molto accogliente, con
tanti servizi dedicati alle persone. Sicuramente i progetti SAI vanno avanti da molto
tempo e prevedono accoglienza, inserimento lavorativo, sostegno legale e aiuto per la
lingua italiana, tra le altre cose. La scuola Penny Wirton, che ha sede proprio dentro la
Casa della Pace, svolge un grande lavoro: non solo insegna l’italiano agli stranieri, ma è
anche un punto di riferimento importante.
Inoltre, è attiva tutta la parte legata al volontariato: Caritas, Protezione Civile,
parrocchie, comunità di Sant’Egidio… Insomma, c’è una grande rete di cooperazione che
lavora sul territorio e spesso gli spazi utilizzati sono comunali.
Tra i servizi, rientra anche tutta la parte dedicata alla violenza di genere. Non riguarda
solo i migranti, ma spesso accedono a questi servizi anche donne migranti. Ci sono, ad
esempio, lo sportello antiviolenza, la casa rifugio e le varie campagne che abbiamo
portato avanti contro la violenza di genere. - Quali sono i principali ostacoli che le Istituzioni incontrano nel portare avanti
questi progetti?
Allora, sicuramente ci sono difficoltà nel proseguire costantemente i progetti. Si spera
sempre di poterli potenziare, di accogliervi più persone, ma spesso ci si scontra con
questioni economiche e con le leggi dello Stato. Ad esempio, penso al decreto Flussi che
dovrebbe uscire a breve: quando parliamo di migrazione siamo inevitabilmente vincolati
da normative nazionali che purtroppo non dipendono da noi.
Le difficoltà sul territorio di Monterotondo, però, non mi sembrano enormi. Siamo
abituati da tempo ad accogliere flussi migratori, a partire dagli anni Novanta con l’arrivo
di persone dall’Albania, dalla Romania, dalla Polonia. Cambiano gli attori e i protagonisti
di questi flussi, ma la nostra città da anni accoglie migranti nelle scuole, nei servizi sociali
e culturali. Non penso sia una comunità razzista o incline agli atti di odio.
È chiaro che poi il singolo individuo non è sempre sensibilizzato, e la sensibilizzazione non
è mai abbastanza. Penso, ad esempio, al linguaggio inclusivo o ai messaggi di violenza e
odio che, purtroppo, fanno parte della società e non si limitano ai migranti come
bersaglio. Ritengo fondamentale continuare a lavorare, soprattutto con le giovani
generazioni, perché i risultati si vedono.
Detto questo, le sacche di violenza, dal bullismo al razzismo, esistono: sarebbe falso e
utopico affermare il contrario. Come in tutte le grandi città, ci sono situazioni periferiche
che necessitano di maggiore attenzione e di progetti che vanno proseguiti, implementati
e aggiornati.
Penso, ad esempio, a iniziative come il progetto Cantiere a Monterotondo, la Scatola, la
Ludoteca Piccole Canaglie: progetti che, dagli anni Novanta, includono e accolgono
persone con disagio psichico, disabilità, difficoltà economiche e migranti, senza alcuna
distinzione di provenienza. - Quindi si mettono in atto azioni ad ampio raggio.
Deve essere un approccio trasversale. L’odio, infatti, non lo combatti intervenendo
soltanto insegnando l’italiano o con misure circoscritte. Lo combatti quando, nella vita di
tutti i giorni, si crea un posto per tutti, in ogni ambito.
Questo, secondo me, è il punto chiave. L’inclusione non si limita a un solo aspetto, ma
riguarda il riconoscere il valore e il contributo di ciascuno nella comunità, a prescindere
da chi siano o da dove provengano. - Quali sono i bisogni della comunità locale e le principali richieste esposte dai
nuclei tutelare?
Il grande problema, in questo momento, non credo sia specifico di Monterotondo, ma
riguarda qualcosa di più generale e mondiale: la povertà. Se ne parla troppo poco e
spesso il tema viene ridotto, come posso dire, alla beneficenza. Non che la beneficenza
sia negativa, ma sembra quasi che allievi un po’ le responsabilità collettive, lasciando il
problema nelle mani dei singoli.
Ad oggi i poveri sono tantissimi e fra questi ci sono sempre più persone che lavorano o
che possiedono una casa. Gli ultimi tre anni, tra due guerre e una situazione geopolitica
instabile, hanno aumentato enormemente i costi della vita. Questo ha fatto sì che molte
persone, un tempo appartenenti a una fascia media, siano precipitate nella povertà.
Penso, ad esempio, ai liberi professionisti o a chi non ha contratti garantiti. Anche la
classe operaia ha cambiato fisionomia e non siamo ancora riusciti a comprenderne
pienamente la trasformazione.
Il tema più ricorrente, stando alla mia esperienza come assessore ai Servizi Sociali, è
proprio quello della povertà. La richiesta principale dei cittadini è il sostegno economico:
per pagare la scuola, le bollette, o spese essenziali. C’è un ritorno tremendo a situazioni
che speravamo superate: famiglie con tre o quattro figli costrette a scegliere di far
studiare solo uno di loro. Questo non genera solo povertà economica, ma anche emotiva
e culturale e non lascia presagire nulla di buono.
La necessità più grande, quindi, è quella di avere più risorse economiche e sociali per
aiutare le famiglie in difficoltà. Ma serve anche potenziare i progetti di inclusione,
allargando il numero di beneficiari. Spesso, i sostegni attuali sono solo soluzioni
temporanee, perché le risorse sono esigue. Inoltre, i continui tagli ai fondi destinati ai
Comuni rendono difficilissimo mantenere attive le iniziative sociali e culturali sul
territorio.
Nonostante ciò, grazie a una scelta politica ben precisa, l’amministrazione si impegna
non solo a garantire ciò che esiste già, ma a implementarlo. È una fatica enorme, ma
necessaria per rispondere alle esigenze crescenti della nostra comunità. - Quali sono le azioni che i giovani, affacciandosi per la prima volta al mondo
degli adulti, possono mettere in pratica nel quotidiano?
Penso che i giovani abbiano una grande possibilità, ma anche una grande responsabilità.
Parlo per esperienza personale: io ho vissuto il passaggio dall’analogico al digitale. Non
sono una “boomer”, perché sono troppo giovane per esserlo, ma mi rendo conto che i
ragazzi di oggi, tra i 15 e i 17 anni, maneggiano linguaggi e strumenti che per me
risultano complessi e spesso difficili da comprendere.
Fortunatamente, la maggior parte dei giovani oggi ha un buon livello di istruzione, anche
se non possiamo generalizzare, dato che in Italia il tasso di abbandono scolastico è
ancora alto. Nella nostra realtà, però, nella città metropolitana di Roma, in particolare a
Monterotondo, c’è un accesso relativamente semplice alle scuole, e questo è un grande
vantaggio.
Credo che i giovani abbiano una responsabilità importante anche nel farci capire alcune
dinamiche che a noi adulti sfuggono. Non si tratta di dettagli, ma di aspetti sostanziali.
Penso, ad esempio, al fenomeno del bullismo, che spesso noi adulti non riusciamo a
vedere o a intercettare, anche perché non abbiamo la dimestichezza necessaria con gli
strumenti digitali. Da una parte, il mondo digitale offre grandi opportunità, ma dall’altra
può diventare una sorta di “piazza buia” difficile da controllare.
Per questo, noi adulti dovremmo imparare a chiedere aiuto e a metterci in ascolto, con
canali aperti e senza pregiudizi, verso le giovani generazioni. È troppo facile liquidarli con
frasi come: “I giovani non hanno voglia di fare nulla”. È lo stesso che sentivo dire quando
io ero giovane e so quanto sia ingiusto. In realtà, credo che i giovani abbiano un grande
potenziale, ma non siamo ancora riusciti a valorizzarlo a pieno.
Una proposta che trovo interessante è quella di creare una consulta giovanile o un tavolo
permanente dedicato alle politiche giovanili e alle loro necessità. Potrebbe essere un
appuntamento semestrale o annuale, un luogo fisico dove i giovani possano confrontarsi,
dialogare e proporre soluzioni. Oggi è difficile per noi adulti intercettare i bisogni reali dei
giovani. Senza strumenti o spazi di dialogo, non sappiamo come e dove trovarli per
chiedere loro: “Cosa vi serve realmente?”.
Inoltre, credo che sia necessario riscoprire il valore della gentilezza e della
partecipazione. Oggi siamo tutti presi dalla fretta, con lo sguardo rivolto al basso,
incapaci di notare chi ci sta intorno, che sia un vicino di casa in difficoltà o una madre
sola con una bambina piccola. Negli anni Settanta, Ottanta o persino Novanta del
Novecento, la scuola e altri luoghi di comunità favorivano la partecipazione collettiva. Ora
tutto sembra frammentato: tante piccole realtà che ruotano attorno agli stessi problemi,
ma senza un collante che le unisca.
Un aspetto interessante riguarda anche lo scambio generazionale. Per esempio, un
tempo i centri anziani erano riservati a una fascia di età specifica, mentre oggi le APS
(Associazioni di Promozione Sociale) sono aperte anche ai giovani dai 18 anni in su.
Questo offre un’enorme opportunità: mettere in connessione persone con esperienze e
prospettive diverse.
Penso che sia fondamentale lavorare come “vasi comunicanti”: una persona di 80 anni
può insegnare qualcosa di prezioso a un giovane e viceversa. Per esempio, un giovane
potrebbe insegnare a un anziano come usare i social o il digitale in modo sicuro e non più
a cercare di gestirlo come un “mostro incomprensibile”, ma come uno strumento utile e
accessibile. Questo tipo di connessione potrebbe essere una delle chiavi per costruire una
comunità più coesa e inclusiva. - Come sono monitorati e valutati i progressi delle azioni antidiscriminatorie? Con
quali strumenti si misura l’efficacia degli interventi e quali misure si adottano
nel caso in cui i risultati non siano sufficienti?
Allora, se ci riferiamo a dati oggettivi, quindi statistici e numerici, non credo sia fattibile
raccogliere informazioni e fare un quadro, una fotografia di questo territorio.
Però, ad esempio, penso a tutte quelle donne che escono dai progetti SAI e che restano
a Monterotondo perché si sono inserite in una comunità. Hanno i figli che vanno a scuola,
conoscono il Comune, l’assistente sociale, sanno a chi rivolgersi. Fondamentalmente,
quando arrivi in un Paese in cui non conosci la lingua o la cultura, magari provenendo da
uno Stato africano o arabo (quindi con una cultura molto differente), non sai proprio a
chi rivolgerti e hai molta paura, soprattutto se hai dei figli con te.
Quindi, quello che osserviamo, ad esempio, sono i dati relativi a carabinieri e polizia
locale, rispetto a furti o azioni violente, che non hanno numeri particolarmente
significativi o interventi esterni particolarmente gravi. Sicuramente, quindi, Monterotondo
è un luogo dove si vive bene. Poi penso a tutti quei progetti e vedo quanti utenti
partecipano, quanti vi restano, quanti si fanno portavoce di quell’esperienza, ad esempio.
Quindi, secondo me, il benessere di un luogo si misura in base a quanto ti senti sicuro.
Ora faccio io una domanda a te: tu, quando vai in giro a Monterotondo la sera, anche
tardi, ti senti sicura o minacciata?
Allora, io mi rendo conto che forse sono un caso a parte, nel senso che, all’inizio,
sì, ero un po’ in allerta. Ora mi sento piuttosto tranquilla, anche se molte mie
amiche non la pensano così.
Non che non si corrano gli stessi rischi rispetto a quelli a cui può andare incontro a un
uomo, ma diciamo che ci si sente un po’ più indifese. Ho sempre vissuto a Monterotondo
e percepisco un senso di sicurezza e tranquillità. Forse è dovuto anche all’età,
all’esperienza, che oggi mi fanno sentire più serena rispetto a quando avevo diciotto anni
o rispetto a vent’anni fa.
Certo, trovare delle misure per stabilire scientificamente, o comunque su dati concreti,
quanto sia sicuro un luogo, forse richiederebbe un accesso ai dati dei carabinieri, della
polizia locale, eccetera. - Anche in questo caso, dipende sempre da chi, secondo me, comunica ciò che
gli è successo.
Se ci riferiamo alle denunce, queste sono evidenti. Se parliamo di interventi dei
carabinieri, se non vengono chiamati non possono intervenire. Per esempio, interventi
effettuati in alcuni quartieri sicuramente sono significativi e il fatto che gli stessi
pattugliano la città fa comunque bene. - Cosa significa, a livello personale, lavorare su temi così delicati e centrali,
soprattutto rivolgendosi ai giovani? Come è cambiato il suo modo di vedere e
vivere la comunità facendo questo lavoro?
Il mio primo impiego è stato, a diciott’anni, in una cooperativa sociale, dove mi occupavo
di bambini con disagio economico, difficoltà e disabilità. È stata una scelta precisa, e da lì
ho continuato a lavorare in cooperativa per sei o sette anni. Quindi, posso dire che
questo è un mondo che conosco molto bene e che, anche prima di ricoprire questo ruolo,
seguivo come cittadina. Credo infatti che sia un dovere di tutti noi proteggere quello
spazio di cura, non inteso in senso sanitario, ma come spazio di attenzione e supporto.
Ora che ricopro il ruolo di assessore al sociale, il mio lavoro è cambiato perché ho più
strumenti e possibilità per incidere, sostenere e portare avanti un’idea. Un’idea che,
però, si inserisce in una continuità storica che su questo territorio dura da circa
ottant’anni. È importante valutare anche la storia di un luogo: se penso alla
Monterotondo degli anni Quaranta, ad esempio, accogliere persone provenienti dalle
Marche o dall’Abruzzo era già una caratteristica del territorio. Monterotondo è sempre
stato un luogo di accoglienza.
Dunque, per me, ciò che è cambiato non è la sensibilità, ma quanto io possa partecipare
e contribuire attivamente alla comunità. - Quali progetti avete in programma per proseguire su questa strada?
Proprio oggi andiamo a inaugurare una casa per il progetto “Dopo di noi”, in cui potrà
vivere un ragazzo, che è di fatto il proprietario della casa, insieme a un altro amico,
iniziando così un percorso di autonomia. Quello che mi piacerebbe fare è sicuramente
implementare la lotta contro la violenza di genere, promuovere l’educazione sentimentale
e provare ad aiutare le persone ad aprire un po’ gli occhi, a vedere “al di là”.
In questi anni abbiamo portato avanti la campagna Facci Caso, dedicata agli stereotipi.
Mi piacerebbe ampliarla, includendo un lavoro sui tabù e affrontare temi come la violenza
sulle donne migranti e sulle donne con disabilità.
La sensibilizzazione sarà sicuramente una parte che continueremo a promuovere. Inoltre,
voglio difendere ciò che già esiste sul territorio e, dove possibile, implementarlo. Ad
esempio, nello scorso consiglio è stata approvata una delibera di giunta che istituisce un
registro comunale per i bambini figli di immigrati. Questo registro non ha valenza
giuridica, ma rappresenta un riconoscimento simbolico di cittadinanza per quei bambini
che, pur vivendo qui, non possono ancora averla, dovendo aspettare i diciotto anni. È
una proposta del consigliere Angelo Casu, condivisa con la nostra maggioranza, che è
stata approvata, anche se con non poche discussioni, poiché non tutti hanno lo stesso
punto di vista.
Dal punto di vista politico, noi abbiamo la responsabilità di portare avanti i nostri temi e
di fare in modo che nessuno distolga l’attenzione da questi obiettivi. La sensazione che
ho è che i media spesso raccontino ciò che è negativo nella società con una narrazione
distorta o tossica. Per esempio, se un immigrato di quarant’anni uccide la moglie, viene
subito sottolineato il suo essere immigrato. Se invece è un italiano, si riporta solo il fatto
senza fare riferimento alla nazionalità. Questo tipo di narrazione crea pregiudizi. - Penso che, anche attraverso riviste locali o contatti diretti con i media, si possa
fare qualcosa per ovviare a questa distorsione. Potremmo invitare i mezzi di
comunicazione a essere più oggettivi, perlomeno nel riportare le notizie in
modo equo e non strumentalizzato. Penso che si debba fare tanta formazione.
Sì, assolutamente sì. Dal magistrato all’operatore scolastico, fino all’operatore ecologico.
Noi abbiamo iniziato questo percorso. È chiaro che si tratta sempre di una questione
legata a fondi, tempi, eccetera, ma credo sia necessario puntare sulla formazione.
Formazione di pace e di cura, perché spesso non ci rendiamo conto o non vediamo ciò
che succede attorno a noi. A volte non vogliamo vedere, oppure non sappiamo che
esistono luoghi a cui possiamo rivolgerci per aiutare una persona a superare un
determinato problema.
Wonder Woman non esiste e nemmeno Superman, ma sapere che, per esempio, se, da
cittadino, assisto a un atto di odio verso un ragazzo perché ha la pelle scura, posso
rivolgermi ai carabinieri, è fondamentale. Non è necessario che io debba affrontare
conseguenze legate a una denuncia, ma posso comunque segnalare ciò che accade.
Credo sia importante far sentire le persone più tutelate, più sicure di poter agire senza
timore. - Qual è il messaggio che vorrebbe dare, sia come assessore sia come
rappresentante della Costituzione, alle persone vittime di discriminazione?
A chi è vittima di odio o di violenza dico di rivolgersi alle Istituzioni, perché non è vero
che sono sorde o cieche rispetto a determinate situazioni. Negli ultimi anni si è fatto un
grande passo avanti nell’accoglienza delle vittime. Mi sento di dire che a Monterotondo ci
sono molti luoghi e persone a cui potersi rivolgere, dalla parrocchia sotto casa alla
farmacia, e non necessariamente al solo luogo specifico preposto. È importante chiedere
aiuto, far sapere che si sta vivendo una situazione difficile, e non nasconderla. Non c’è
alcuna vergogna in questo, anzi: è un atto di coraggio.
A chi lavora nelle Istituzioni, invece, voglio dire che è fondamentale compiere atti di
coraggio ancora più grandi, intervenendo e garantendo finanziamenti stabili, anno dopo
anno, lavorando sul bilancio sociale. È necessario vedere tutto questo come un impegno
collettivo. Siamo tutti parte di una comunità e, nella quotidianità, anche piccoli gesti di
aiuto fanno la differenza. Aiutare una persona ad attraversare la strada, regalare un
sorriso o semplicemente dire “ci sono, chiamami se hai bisogno” sono già grandi gesti di
sostegno e accoglienza.
Questo è qualcosa che ho notato anche come amministratrice: spesso il cittadino non
cerca necessariamente una soluzione immediata, ma vuole sentirsi ascoltato e sostenuto.
Anche se non si può risolvere tutto, attivarsi per aiutare e far sentire le persone accolte è
un primo passo fondamentale. Questa sensibilità deve tradursi nella vita quotidiana: al
bar, in condominio, con la famiglia. Sentirsi parte di una comunità permette di
partecipare, di proporre idee e di sapere che ci sarà chi ascolta. Certo, ognuno gestisce il
proprio ruolo come meglio crede, ma è questo senso di appartenenza e solidarietà che
crea una comunità forte.
La costruzione di una comunità inclusiva e solidale passa da ogni gesto, piccolo o grande,
che possa trasformare l’indifferenza in partecipazione e il bisogno in opportunità condivise.
Un invito a essere protagonisti di un cambiamento collettivo.
Alice Cuturello
Human